FRANCO GARELLI


Dagli esordi all'Informale
di Lorenza Trucchi
Franco Garelli: scultore del proprio tempo
di Piergiorgio Dragone
Notizie biografiche

La scultura di Garelli ha cominciato a prendere corpo e consistenza intorno al '54-'55, definendosi subito come una scultura, per un aspetto, iconologico, attenta al tema della "figura", per un altro, operativo e strumentale, tutta intesa a proposte nuove di linguaggio plastico, sia nella dialettica subito enunciata fra lo spazio e tale "figura", sia nell'impegno materico, che dalla fusione in bronzo trapassa quasi immediatamente nel ferro composto ed articolato per saldatura elettrica o autogena. Alla Biennale veneziana del '54 Garelli era presente con "figure" in bronzo, mentre nella Quadriennale romana del '55-'56 era presente con più ampie "figure" in ferro, appunto saldato.

Se il tema "figura" non può che portarci subito a fare i conti, a quel livello cronologico, con una tradizione di "statuaria" già denunciata da Arturo Martini negli anni Quaranta, ma che in fondo continuava nel mito umanistico strenuamente difeso, magari allo stremo della sua impalcatura struttiva o della snervatura sensibilistica, da Marini o da Manzù (o nel mediterraneismo un po' facile o gentile di Greco), della preponderante immagine umana, è tuttavia attraverso le diverse esperienze culturali formative della personalità di Garelli che il modo di attendere a quel tema si configurava e tipizzava.

Poco meno che ventenne Garelli a Torino entrava in contatto con il gruppo dei "secondi futuristi", e di li con l'attivismo marinettiano. E si sa come il gruppo dei «secondi futuristi» torinesi, sui quali la critica da alcuni anni ha ormai riportato giustamente l'attenzione, fosse il più attivo, originale e indipendente -e dialetticamente distaccato anche proprio dalle maggiori implicazioni della retorica marianettiana di quegli anni -, nel contesto dell'intera seconda generazione futurista italiana, per merito soprattutto di Fillia, di Mino Rosso e di Oriani. Naturalmente, se di certo non si può parlare di una matrice originaria futurista per Garelli, tuttavia non si può neppure negare una sorta di libera rispondenza proprio ad un certo attivismo che fu tipico della mentalità 'futurista" anche al livello della seconda generazione. E così pure Garelli è costantemente assillato da una volontà di aderenza al mondo contemporaneo e alla sua tipica sensibilità, intesa, potremmo dire ancora, "futuristicamente", sotto il profilo del dramma dinamico della simultaneità -ovviamente in senso lato, e non letterale -.

D'altra parte, diversi anni più tardi, ad Albisola, Garelli ha rapporti con Arturo Martini, il cui eccezionale estro rapsodico può averlo affascinato. Quindi, dopo la bufera bellica, verso la fine degli anni Quaranta, Garelli, in quel momento pittore e ceramista soprattutto, incontra fra Albisola e Vallauris Lucio Fontana e Tullio Mazzotti (il Tullio d'Albisola della stessa "seconda generazione" futurista), assieme ad altri come Agenore Fabbri ed Aligi Sassu. Ma soprattutto ad Albisola, intorno al '48, incontra alcuni protagonisti del gruppo sperimentale nord-europeo "Cobra", Jorn,Appel, Corneille, in quegli anni attivissimi, com'è noto, nel centro della ceramica ligure. E nel Laboratorio Sperimentale di Alba, animato da Pinot Gallizio, Garelli si inserisce in un analogo fervore d'attività creativa, ove è presente con jorn stesso, Constant, un altro protagonista di "Cobra". E' così che Garelli, a Torino cresciuto guardando all'"aut-sider" Spazzapan, piuttosto che venerando Casorati, si è formato nel vivo di un fervore d'attivismo creativo, d'Interventismo e di continua tensione di ricerca, che lo ha portato a diffidare delle situazioni troppo lente, troppo delibate, troppo indirette, troppo distanti da un ritmo vitale nella sua immediatezza appunto di spinta attivistica.

Ed è dunque in questa prospettiva che va intesa la sua proposta di "figura" avanzata solidamente con le sculture della metà degli anni Cinquanta. Una "figura" riscattata proprio come "verità strutturale" -come ama dire Garelli stesso -di contro appunto all'assolutezza della tradizione umanistica d'integrità d'ideale dell'immagine umana -in Italia, di Marini e di Manzù -, verso la quale Martini stesso aveva gettato profondi, determinanti sospetti. Una "verità strutturale", quella alla quale s'applicava Garelli verso la metà degli anni Cinquanta indissolubile dal problema di una strumentazione operativa in rottura con una tradizione d'assolutezza massiva della scultura stessa (il termine strumentale appunto di tale tradizione umanistica).
E qui non si può non ricordare come le esperienze pittoriche e ceramiche di Garelli fossero orientate su una immediatezza di strumentazione a livello corsivo e quasi gestuale, come quasi materico, circoscrivendo cioè già esse stesse la misura di quella tematica di "figura", che appunto allora s'andava cagliando nella sua immaginazione, entro termini dunque d'immediatezza e di corsività.
«Ho sempre guardato con meraviglia, ma credo senza invidia, chi mi diceva di avere un quadro in mente da tempo o una scultura, e di contare di realizzarlo presto. Mi è sempre stato impossibile adottare un tale sistema che per me si sarebbe dovuto risolvere in un impiego di astuzia. A me capita in un altro modo»: confessava Garelli nel '49 in un testo in "Pesci Rossi" (Milano, ottobre). «Mi capita, ad un certo punto, di avere voglia, voglia, voglia e allora mi succede di prendere colori o creta fra le mani e di ritrovarmi ancora una volta di fronte alle solite posizioni. Dico subito: chi mi interessa soprattutto è l'uomo. C'è intanto da tener conto di tutta una precisa situazione, altrettanto seria, urgente e quotidiana, ed è questa mia attività contemporanea di chirurgo, questo tutti i giorni trovarmi a tu per tu in uno stretto incontro con bambini, uomini e donne in quella condizione intima e nuda di chi quasi si concede in modo totale. Quindi cacciarsi, sia pure col bisturi, nell'uomo, nell'uomo dentro, mentre nel cuore si creano delle stigmate che ti porti in giro sempre. Allora, coi colori o con la creta questo interesse affiora e cerca ancora risposta nel fatto figurativo».

Forse la declinazione pragmatica dell'immaginazione, direi della stessa "forma mentis" di Garelli nasce in una sua fondamentale vocazione, che ha giustificato il suo stesso impegno professionale, ad alto livello, di chirurgo, fino a pochi anni fa, come può essersi altrimenti motivata la concretezza allucinata e lancinante di fisicità di un Céline, medico, o di un Burri, medico anch'esso fino al ritorno dalla prigionia nel Texas.

Picasso naturalmente era l'esempio di questo nuovissimo contromito dell'immagine umana, di questa nuovissima "immagine dell'uomo". Picasso, che «guarda tutte le immagini che le tradizioni figurative passate gli offrono», «un vero tumulto di immagini, di voci che giunge al cuore, alla mente, alle stesse mani di quell'uomo vivo e vitale a quei primi decenni di questo secolo ventesimo", Picasso, che «caccia le sue tozze forti mani in tutte quelle cose. Prende, strappa, sradica quanto più può. Alza, tira, torce. Spreme, stende, fissa», che è «la più grande, generosa, fantastica, entusiasmante orchestrazione, inesauribile orchestrazione, che si possa immaginare. Picasso che è uno dei maggiori esempi d'attivismo figurale, di pragmatismo segnico-figurale»: come scriveva Garelli in un fascicoletto del '49 stesso, Dipingere oggi.

E tuttavia Garelli intendeva la necessità di far fronte ad uno scavo più circoscritto, al di là del fascino di quest'altro grandissimo rapsodo. Uno sforzo che da più parti, in Italia e altrove (ma soprattutto in Italia in termini di dialettica picassiana), si andava compiendo. Ed è singolare rinvenire in quel medesimo fascicoletto, testo di una conferenza, due citazioni di Morlotti, un artista in fondo lontano, nel complesso, dall'orizzonte immaginativo più definito di Garelli, e tuttavia in quegli anni anche egli intento a fare i conti con suggestioni picassiane, e ad estrarne una verità più terrena, più prosaica che epica, più naturale che ideografica. «La nostra storia di uomini e di pittori comincia da tutto questo sforzo di emancipazione, da questo sforzo di isolare la verità dagli schemi, dalle armature fotografiche, dagli elementi parassiti ed episodici... attaccare il malinteso dell'imitazione, ritrovare le origini e le leggi del fatto espressivo; spogliarsi delle sovrastrutture e contaminazioni per arrivare al rinnovamento integrale della pittura e alla nuova scoperta del mondo. Non vogliamo ripiegare e rivivere secondo antiche dogmatiche oppure ripetere sterilmente i sentieri culturalistici di una tradizione come uomini privi di potenze generative. Non certo un facile ottimismo, ma una profonda critica fiducia hanno schiuso nuovi orizzonti, che ci affascinano; come Ulisse Perseguiremo l'esplorazioni anche se queste non avessero mai fine».

Ancora oggi Garelli mi dice di preferire "Ulisse a Michelangelo". E certo la sua vocazione pragmatica è alla distanza più tipica che non l'aspirazione che poteva formulare nei suoi anni di scarto in certo modo sperimentale appunto Morlotti. D'altra parte una vocazione ulissica non solo è, per eccellenza, nel ratto rapsodico picassiano, ma anche proprio in quell'inquietudine attivistica di partecipazione che caratterizza lo sperimentalismo degli artisti "Cobra", con i quali Garelli simpatizzava.

Ed è proprio entro questa misura pragmatica, anziché ideale, strumentale piuttosto che concettuale, di "figura", che si è insinuato lo spazio, come termine dialettico vincolante, non spazio che chiude la forma-immagine, bensì che la penetra e la solca, non "esospazio" insomma come nella tradizione umanistica e statuaria dell'integrità dell'immagine umana, bensì, come più volte Garelli ha detto, "endospazio", appunto verità strutturale, peso scoperto e fisico della «figura», sua autentica, non ideale, non fittizia ponderalità.

Enrico Crispolti

da Franco Garelli,Viotti,Torino, 2-15 dicembre 1967