FRANCO GARELLI


Dagli esordi all'Informale
di Lorenza Trucchi
Notizie biografiche Franco Garelli
di Enrico Crispolti

Franco Garelli: scultore del proprio tempo

Lo sguardo di Garelli, in quella fotografia scattata attorno al 1950, fissava l'otturatore della macchina fotografica. Forse anche per questo, la sua occhiata di un istante rimane, seppur fissa, l'elemento più vivido e palpitante dell'immagine che compare, nel catalogo della retrospettiva curata nel 1989 da Enrico Crispolti, a pagina 100, a fronte della nota biografica sull'artista.

Ben scelta, quella foto dello scultore nel suo studio; anche perché rappresentava -come dimostrano le sculture in lavorazione, figure dalle forme piene e dai volumi tondeggianti, incisi però da tagli-scavi che, riecheggiando ancora la lezione strutturale di Lipchitz, le plasmano come a partire dall'interno -un "prima" rispetto al linguaggio plastico più conosciuto di Garelli: quello che egli sperimentò e sviluppò nel corso degli anni '50, mentre si andava affermando da protagonista nella Torino di Tapié e Pistoi.

Davvero ben scelta, e anche bella, quella fotografia: Garelli è in piedi, tra uno sgabello e un altro che fa da basamento a una scultura: ci sono due lavori grandi e due bozzetti più piccoli, tutti e quattro bianchi, gessosi: anche i suoi pantaloni paiono scolpiti nel gesso. Polvere e tracce di gesso un po' dappertutto, sul pavimento e sui piani di legno, sulle pareti scrostate e fin sulla maglia, sulle mani e sul manico della gradina, impugnata appena sotto il ferro. Naturale, del resto: anche se si è girato, e la sua testa, di tre quarti, sembra emergere dal colletto bianchissimo come perfettamente tornita in ogni dettaglio dalla morbida luce avvolgente, Garelli è stato colto dal fotografo in un istante di lavoro, nella sua "officina" piena di gesso; non in una sala di esposizione, o in uno studio di posa.

Eppure, proprio l'osservare quell'immagine mi dà un profondo senso di disagio. Non è tanto la nostalgia che suscita ogni documento fotografico facendo riemergere dal passato, con tutta la paradossale e disturbante vividezza della realtà, un momento che invece non esiste più. Piuttosto, è lo stesso catalogo in cui la fotografia compare, e la mostra di sei anni fa -per quanto ha significato nella vicenda critica postuma di Garelli -a farmi sentire una sorta di irritazione o, per la precisione, di vera e propria ribellione, rabbiosa quanto impotente: al pensiero che quasi nulla sia accaduto, nel frattempo, per sottrarre alla dimenticanza, alla smemoratezza o all'ignoranza una figura significativa quale quella di Garelli. Tanto più che, sei anni fa, Crispolti aveva scritto a chiare lettere che «in realtà esiste una storia e persino a monte una 'preistoria' di Garelli scultore, e pittore, che riporta inizialmente agli anni Trenta, e che nei secondi Quaranta e nei primi Cinquanta lo ha visto interessante e inquieto pittore e impegnato innovativo scultore in ceramica. La vicenda creativa di Garelli è infatti complessa, e più complessa nei suoi tempi e nelle sue diramazioni di quanto questa prima mostra, di ripresa di un discorso critico sulla sua opera, intenda e riesca a documentare.» Una prima retrospettiva che lasciava «aperto il discorso sulla ceramica ... altrettanto che quello sulla pittura, molto singolare, e veramente ancora tutta da scoprire» e che era stata organizzata in tutta fretta -come di frequente decidono gli Enti Pubblici, quasi più per assolvere a un dovere, togliersi un pensiero o rispondere a una delle tante sollecitazioni, che non per realizzare un'operazione culturale nel modo più congruo e con il necessario respiro -sicché anche Crispolti non aveva potuto che "rileggere" e render attuale, nel 1989, il saggio critico stilato per la monografia che lui stesso aveva dedicato a Garelli nel 1966.

In sostanza, cioè, manca a tutt'oggi un bilancio meditato e di abbastanza vasta prospettiva di raffronti che consenta davvero di cogliere il senso ed il valore dell'opera di Garelli. E non si tratta semplicemente, si badi bene, di rispolverare i giudizi e le valutazioni espresse dalla critica più autorevole fra gli anni '50 e '60: che Lionello Venturi lo considerasse, nel 1960, «probabilmente il maggior rappresentante, nell'Italia di oggi, dell'arte informale», è non poco significativo: così come non si può non ricordare il posto che gli venne assegnato nei volumi di sintesi sulla scultura pubblicati in quel periodo, da Seuphor a Hofmann.

Ma la verifica critica va condotta, come già indicava lo stesso Crispolti sei anni fa, sull'intero percorso dell'artista, e alla luce delle acquisizioni critico-storiografiche attuali. La critica internazionale ha rivisto negli ultimi anni la vicenda dei protagonisti dell'action painting americana reinserendo le fasi "mature" o "centrali" -quelle che allora, in una logica di cesure nette, erano apparse radicalmente innovative e dunque di svolta tale da comportare il rifiuto delle esperienze precedenti -in una continuità evolutiva che meglio considera anche il generale contesto culturale. Allo stesso modo, nel caso di Garelli, si deve ricollegare il decennio più noto dal 1955 al 1965, sia alla sua attività precedente sia che all'ultima fase di produzione (a partire dai plamec, di cui vanno approfonditi il significato e la portata) che era ovviamente rimasta fuori dalla monografia pubblicata nel 1966; e, d'altra parte, verificare la specificità del discorso dell'artista rispetto alle esperienze a lui contemporanee, considerando anche -altro importante argomento sinora appena accennato -quali siano stati gli influssi della lezione di Garelli come docente in Accademia, oltre che come artista.
Non è questo un compito che mi possa assegnare in poche pagine di presentazione, seppur di fronte a un discreto panorama di opere raccolte presso due fra le gallerie più serie nei loro programmi di approfondimento storico-culturale. Ma qualche indicazione, una sorta di mappa degli snodi problematici a cui prestare maggiore attenzione, si può tentare: tenendo anche conto del fatto che corrisponde a taluni aspetti del lavoro e della personalità di Garelli che alcuni dei critici più attenti avevano già colto: il futurismo; l'incandescente, ma complessa, fase dell'informale; la nozione di figura; la sua febbrile ansia di sperimentare nuove tecniche espressive, avvalendosi dei materiali sempre nuovi che l'industria e le tecnologie industriali potevano via via rendere disponibili.

Già nei primi anni 50, Garelli aveva detto: Io non so quale sia il volto del nostro tempo; ed allora cerco di costruire un'immagine dell'uomo servendomi di oggetti del nostro tempo: pezzi meccanici, ritagli di lamiere scartati dalle fabbriche di automobili. Saranno queste cose a suggerirmi l'aspetto dell'uomo». In questa frase -io credo -è racchiuso il nucleo centrale della sua concezione artistica: tesa a scoprire il modo di essere non tanto "moderno", quanto "contemporaneo"; e serbando una carica vitale, profondamente ottimistica, che mi sembra, al contempo, umana ed umanistica. Da uomo faber, come è già stato sottolineato: con una grande libertà di spirito -universale -pronta a ricollegarsi a un sentire della tradizione occidentale come di quella dell'oriente. Ma con una precisa propensione, da medico e chirurgo, a coniugare spirito, vitalità e corpo, sia nella concretezza del lavoro e nella fisicità dei materiali, sia nella capacità di sentire l'unità -nella figura e nella natura umana -di un insieme strutturale inscindibile ed in permanente mutazione. Un procedere nel tempo, attraverso evoluzioni delle forme, avvalendosi dello studio e delle conoscenze, con un progetto ed una precisa logica strutturale; ma non rinunciando mai alla componente emotiva, allo scatto risolutivo che sembra nascer da sé, grazie al caso o all'ispirazione.

Un modo di pensare e di procedere di cui abbiamo testimonianze chiare anche nelle parole raccolte e sagacemente scelte da Renzo Guasco che ne ha seguito passo dopo passo l'attività. Nel 1960, ad esempio, presentandone la personale alla Galleria Pogliani di Roma, egli cita: «Mi ha sempre interessato tentare la figura a costo di correre il rischio del surrealismo o dell'ironia o della metafisica. Fare una scultura figurale, non uomini o donne, ma figure. Un tempo di una figura si modellava la superficie esterna, ma fu Lípchitz il primo a modellarne l'interno, la forma cava». Sappiamo così non poco delle fonti a cui Garelli aveva guardato: ma in un'ottica comunque personale, che prescindeva dalle categorizzazioni della critica come dai movimenti artistici più o meno organizzati.

Ma le dichiarazioni raccolte da Guasco divengono ancor più preziose quando riguardano il suo concreto modus operandi, come quando riferisce che lo scultore, a proposito di un'opera che stavano osservando, gli aveva raccontato: «La stavo costruendo in piedi, poi ad un tratto ho deciso di coricarla su un fianco. Capisci: il punto di approdo razionalmente calcolato è scavalcato dallo scatto emotivo. E' come compiere un giro di boa. Sembra di tornare indietro, ma è ancora un andare avanti».

Qui, mi pare, c'è una chiave essenziale per comprendere Garelli: la rapidità di decisione, ma soprattutto il senso del tempo come dimensione in cui si susseguono accadimenti, incrociandosi -e interferendo -con la dimensione spaziale. Nel 1957, l'artista aveva scritto una lettera a Luciano Pistoi commentando e narrando la genesi di FG-F 57 (la scultura cui venne dedicato il secondo numero di Notizie, la rivista-bollettino della omonima galleria aperta da Pistoi) che inizia proprio su una riflessione sul tempo, sulla/sulle realtà, sulla creazione dell'immagine, sulla nascita della figura: «ho ascoltato in macchina ieri sera la radiocronaca, alle 22,37, dell'incrocio dei due 'DC 70' sul Polo, che andavano sparati alle loro mete. Anche la mia macchina andava (più piano), anche le onde della trasmissione arrivavano (velocissime) sempre alle 22,3 7 Con tutte le altre cose di quelle ore 22 e 37. Ti assicuro che stamattina a vedere le foto dei quadrimotori arrivati e fermi (telefoto diventate clichès, onde diventate zinco), mi sembrava di vedere un cadavere di verità». E poi descrive il suo lavoro per far nascere la scultura, precisandone i tempi, i giorni e le ore, le tecniche e i materiali.

Ossessione, certo: da medico, quale era; da chirurgo plastico; e da futurista, soprattutto. Un futurista, però -e qui sta la differenza specifica -che non è preso dal mito della velocità al punto da esser tentato di trasformare l'uomo in una macchina; semmai è il contrario: accetta e va incontro alla modernità, ma per ricondurla comunque alla dimensione umana, e recuperando il passato per meglio proiettarsi in avanti. Accettando sempre nuove sfide, facendo i conti con i mutamenti che lo circondano: è in questo spirito, credo, che vadano considerati sia i plamec che le opere nelle quali taglia ed arrotola la lamiera, creando forme che richiamano alla mente motori ed aerei, ma che si pongono poi sempre come organismi vivi, umanamente vitali e palpitanti, in uno scatto metamorfico, non puramente metaforico, ma che va al di Iá della loro materia.

Quanto questa lezione abbia poi lasciato un segno, se non una precisa eredità, in qualche scultore non solo torinese delle generazioni successive, è di nuovo un discorso che in questa sede non si può che suggerire: invitando a riflettere a quegli anni dell'Accademia di Torino, dove Cherchi e Garelli offrivano due poli di maestria e di tradizione quanto mai stimolanti; e al dibattito che si sviluppa -nelle opere, per restare a qualche nome soltanto, e in Italia, di Consagra o Mastroianni, Calò o Pomodoro -sui destini di una scultura che cercava spazio nelle città, declinando in sé, in primo luogo, il permanente problema della dialettica pieno/vuoto, ma pure quello di farsi lamiera, e dell'assottigliarsi come materia, per meglio evocare la propria natura tridimensionale: in un serrato paradosso -rovesciato rispetto a quello della pittura, e non privo di implicazioni concettuali -fra le due e le tre dimensioni. E anche in questo dibattito, mi pare che Garelli abbia interloquito in una maniera che meriterebbe qualche attenta riconsiderazione. Nella speranza che gli anni prossimi non restino silenziosi come i precedenti ...

Piergiorgio Dragone
Settembre 1995